Cabala bianca

Gian Dàuli


A la puerta de un sordo
un dia cantaba un mudo
y un ciego que pasaba
finjia que lo veia.

I. Un viaggio straordinario

1.

Si arrivò alla stazione appena in tempo per prendere il treno. Io avevo l'animo contento e scontento insieme: ero contento di essere col mio vecchio amico Piero e scontento di lasciare la città senza dire nulla a nessuno.

— Eh, hai visto? – disse Piero – quasi perdevamo il treno. – Si mise a ridere e si sedette accanto al finestrino. Mi fece posto al suo fianco e mi liberò dal grosso pacco tondo che portavo col dito infilato nello spago. Lo spago tagliava il dito: mi fece piacere liberarmene.

Nello scompartimento c'era una grande confusione: viaggiatori che salivano in piedi sui sedili per accomodare i bagagli sulle nostre teste, viaggiatori che si piegavano ad accomodare cassette e sacchi sotto i nostri piedi; un donnone che ci voltava le spalle si piegò improvvisamente in due e Piero ed io ci stringemmo, ridendo, l'uno sull'altro per non essere schiacciati da quel mappamondo che riempiva tutto lo scompartimento.

Il treno correva e si vedevano passare davanti al finestrino porte, scritte d'uffici, impalcature da muratori, giardini, case, finestre col vaso di gerani e la gabbia del canarino, grandi alberi che spuntavano da un muro alto, fili del telegrafo che galoppavano col treno saltando i pali di sostegno.

— Dove andiamo? – chiesi a Piero appena potei prendere fiato.

Piero si mise a ridere. Gli mancavano i denti davanti. Tante volte mi aveva detto che voleva farseli mettere, ma aveva paura di andare dal dentista ed avevamo discusso anche per questo.

I biglietti li aveva acquistati lui.

— Converrebbe non andare troppo lontano – osservai dopo un poco, blandamente. Non desideravo contrariarlo.

Piero guardava fuori dal finestrino con un'espressione di gioia che non gli avevo mai vista. Teneva il mio pacco sulle ginocchia e le mani sul pacco, leggere leggere.

«Ora mi dirà che il pacco è suo – pensai mio malgrado – e litigheremo». Mi sforzavo invano di ricordare cosa c'era nel pacco.

— Tu non sai dove andiamo! – disse Piero senza voltarsi. – Deve essere una grande gioia viaggiare senza sapere dove si va.

Il suo volto, da beato che era, si fece cupo.

— Tu mi guasti sempre la festa – aggiunse cattivo.

Trovavo che, al solito, Piero era ingiusto. Se avessi comprato i biglietti io, ora avrei saputo dove si andava e sarei stato più contento.

— Non fa punto piacere non sapere dove si va! – dissi, alla fine, in tono da non offendere Piero, guardando con aria malinconica e dolce una ragazza che mi sedeva di faccia.

— Hai voluto tu che si lasciasse la città! – disse Piero.

— Io?

— Non hai forse detto, quando ci siamo incontrati sul tram: «Come vorrei andare in campagna oggi!»? Ed ora ti deve importare poco dove si va! Si va in campagna, hai capito?

Non risposi. Sarebbe bastata una parola per fare andare Piero sulle furie. Se avessi appena fiatato, si sarebbe messo ad urlare, a ingiuriarmi; sarebbe balzato in piedi, con i pugni chiusi e la faccia rossa, come mio fratello Giacomo, che, perchè è il maggiore, vuol sempre aver ragione; soprattutto quando ha torto. Per nulla al mondo desideravo una scenata in quel momento. La bella figliola seduta di fronte a me teneva le piccole mani sulle ginocchia nude e mi guardava con due grandi occhi chiari chiari. Portava una sottanina verde e una blusetta bianca. Perchè una sottanina così corta? E poi la blusetta era sbottonata e ai sussulti del treno potevo scorgere un piccolo seno color latte, tondo e sodo, ciò che non stava bene per una signorina come lei.

Le sorrisi.

Si fece seria.

Aveva la bocca piccola. Tornai a sorriderle. Vidi che le tremavano le labbra. Continuando a guardarmi con i suoi grandi occhi, si fece tutta rossa. S'era innamorata di me certamente, ed io, una bambina così, l'avrei adorata. Me la sarei presa sulle ginocchia all'ombra di un albero e le avrei baciato i grandi occhi, le piccole orecchie, il collo bianco, guardandole la bocca tremare. Poi avremmo dormito sul prato, la sua testina sul mio petto e le avrei abbottonata la blusetta e tirata giù la sottanina verde.

— Non fare lo stupido! – mi mormorò all'orecchio Piero.

Il treno si fermò di botto e la ragazza mi cadde addosso, leggera.

— Scusate! Il treno!

Non ebbi tempo di dire: «Oh, il piacere è mio!» che il donnone mi piombò sopra. Pesava come un sacco di carne molle e calda, e mi soffocava. Non riuscivo a liberarmene. Il sangue mi salì alla testa.

— Caì! Caì! Caì! – strillava un cane volpino di sotto al sedile. Ebbi l'impressione che fosse il cane del professore di francese, al quale avevo dato un calcio nel corridoio della scuola. «Che fortuna – pensai – che siamo in treno!»

— Dove hai ficcato il mio pacco? – chiese irato Piero, carponi tra i due sedili, alzando verso di me una faccia sporca di polvere e di ragnatele. – Neanche qui sotto c'è! Ti pare che siano scherzi da fare questi? da padre di famiglia, da padre di tre figli, di tre figli maschi per giunta?

Avrei potuto ribattergli almeno che era inutile ricordarmi che non avevo figli maschi, ma tre femmine; ma non volevo guastarmi con lui. Piero provava piacere ad attaccar lite. E mai che avesse ragione. Aveva sempre torto, torto marcio, come quando l'avevo invitato a mangiare le rane fritte a casa mia ed era arrivato con un cartoccio di dolci ed una bottiglia di spumante. Appena entrato e deposto cartoccio e bottiglia sulla tavola apparecchiata, s'era messo ad urlare che avrei dovuto invitare sua moglie a mangiare le rane, non lui. A lui le rane facevano nausea, gli saltavano nello stomaco solo a pensarle.

— E allora perchè hai accettato di venirle a mangiare e perchè hai portano i dolci e la bottiglia?

— Per insegnarti la buona educazione!

— Insegnare la buona educazione a me, tu?

— Sì, io a te!

— Ma vi prego, figlioli! – intervenne mia moglie con la zuppiera in mano. Clementina aveva preparato quella sera la zuppa di cipolle, di cui io vado matto, perchè le avevo detto che era la passione anche di Piero. Per questo ella aggiunse sorridendo: – Vi ho preparato la zuppa di cipolle, Piero!

— La zuppa di cipolle! – urlò Piero, sbarrando gli occhi furibondi, – io odio la zuppa di cipolle!

Mi sarei nascosto sotto la tavola.

— Cosa fai? Non scendi? – mi gridò Piero dal marciapiede. – Siamo arrivati!

— Arrivati? Se siamo partiti poco fa?

— Arrivati! – ripetè severo Piero, calcandosi il cappello in testa.

Ebbi appena il tempo di buttarmi giù, che già il treno si moveva. Avevo, come al solito, le due valigie di quando andiamo in campagna. Clementina bada alle figliole che non vadano sotto il treno ed io debbo trascinare le valigie peggio di un facchino.

2.

Piero mi prese sotto braccio. Aveva l'aria beata.

— Vedrai come è bello qui: si è vicini alla città e non si è vicini, si è in campagna e non si è in campagna, e c'è anche l'acqua come se ci fosse il mare.

Guardai intorno col desiderio di aria fresca e di verde. C'era davanti a noi una casetta bianca, a due piani, con le imposte verdi, con un'altana incoronata di glicine.

«Ecco una casetta – mi dissi – che piacerebbe tanto ad Emilia. Qui sarebbe la felicità: noi due soli in questa casetta bianca con le imposte verdi e l'altana con i glicini.»

Sospirai. Mi pesava sul cuore la malinconia di una felicità impossibile.

— Non ti ho detto nulla – disse Piero, – per farti una bella sorpresa. Emilia ci attende.

Non osai chiedere «Come? Dove?» per non rompere l'incanto di quella notizia e per non tradire la troppa gioia che mi dava.

Piero lasciò il mio braccio e si mise a correre ed io gli tenni dietro a fatica, col cuore in gola, ripetendomi mentalmente: «Emilia è qui! La vedrò fra poco!».

La strada non finiva più. Piero correva come faceva da ragazzo, nelle gare ai Giardini pubblici, con i pugni chiusi in avanti, la schiena rigida in dietro, tirando su le ginocchia come un cavallo. Era proprio ridicolo. Per fortuna la strada era deserta.

Si fermò di botto ad un angolo dove c'era una piazza.

— È qui, ti dico

— Dove?

— Guarda

Mi indicò col dito teso un gran cartello pubblicitario a colori, appeso ad un muro sporco. Sul cartello, in alto, c'era il suo nome a lettere cubitali: Piero Trotta e sotto c'era Emilia con i suoi capelli ricciuti, i suoi occhi neri, il suo bel seno rotondo, seduta su cassette d'imballaggio, tenendo in mano un barattolo di conserva di pomodoro, i piccoli piedi nascosti dalla scritta gialla su fondo nero: Premiata fabbrica di Pomodoro.

— Io ho troppo da fare – tuonò Piero. Mi stava davanti a gambe larghe, con le mani in tasca, il toscano in un angolo della bocca, la faccia cattiva. – Voi potete andare in campagna perchè non avete nulla da fare. Io ho troppo da fare! Io non vivo a sbafo come te sui fondi dello Stato. Io debbo lavorare, la-vo-ra-re, lavorare da mattina a sera, e anche di notte: rovinarmi gli occhi sui conti, rompermi la schiena con le casse, mentre voi vi succhiate le dita, sdraiati in poltrona. Buon viaggio! Buona campagna! Buon divertimento e figli maschi, se li sapete fare!

Mi volse le spalle e scomparve ed io rimasi come uno stupido a guardare il manifesto. Emilia mi sorrideva, col barattolo della conserva di pomodoro in mano, come quella sera che si rimase soli in magazzino, mentre Piero era andato a comprarsi i toscani. Come quella sera io ero sicuro che Emilia mi avrebbe detto: «Ti voglio bene, Filippo!» e per questo dissi io per primo: «Anch'io, cara!»

L'altra volta Emilia aveva lasciato cadere il barattolo della conserva di pomodoro e aveva chinato la testa confusa. Ora continuava a guardarmi sorridendo, col barattolo in mano ed io mi sentii il sangue alla faccia, con una gran vergogna di sapermi ridicolo, perchè non ero più solo sulla piazza. Due bambini, un maschietto ed una femminuccia, sbucati non sapevo di dove, mi stavano davanti e mi guardavano a bocca aperta. Il ragazzetto aveva la camicia fuori dalle brachette e la bambina le mutandine sporche rovesciate sui piedi.

— Vergogna – volevo dire, ma non dissi nulla: diedi una monetina a ciascuno dei due e me ne andai impettito, come se fossi stato offeso, ma avevo il cuore grosso per via di Emilia che aveva voluto dirmi: «Ti voglio bene, Filippo» e non me l'aveva detto. Ero sicuro che ora di notte Emilia non poteva dormire e si tormentava guardando nel buio, mentre Piero le russava accanto.

3.

La felicità, si sa, pensavo seduto su un paracarro al principio della strada, sarebbe una casetta bianca con le imposte verdi e l'altana con il glicine fiorito e Emilia che canta in cucina e prepara la zuppa con le cipolle e le rane fritte per il suo Filippino che torna a casa dall'ufficio del Catasto a mezzogiorno e mezzo preciso, e d'inverno si toglie il pastrano e il cappello duro e si frega le mani contento perchè fuori fa freddo e dentro fa caldo; e d'estate si toglie la giacca e la paglietta e si frega le mani contento perchè fuori fa caldo e dentro fa fresco.

Emilia canta in cucina ed io dall'anticamera grido:

— Sono qui, Emilietta! È qui il tuo tesoro, Emilietta, con un appe-appe-appe-appetito-tito-tito-tito-tito del diavolo.

O meglio: entro in casa senza farmi sentire, zitto, zitto; mi tolgo il cappello o la paglietta, il pastrano o la giacca e poi anche le scarpe e in punta di piedi vado in cucina, spio dall'uscio perchè Emilia non mi veda entrare, e al momento buono, tràcchete, le chiudo gli occhi prendendola alle spalle.

— Indovina chi sono! – grido con un vocione da far tramortire il canarino in gabbia. – Indovina chi sono!

Emilia, spaventata, trema tutta e vuol svincolarsi, ma io la tengo stretta.

— Indovina!

— Siete… siete… – balbetta Emilietta con la sua vocina da bambina, – siete lo spazzino…

— No!

— Siete il… collettore del gas…

— No!

— Il signor Bastiano…

Mi getto a ridere perchè Bastiano è il calzolaio che sta in campiello del Sole, ed è gobbo ed ha il naso storto. Lascio andare.

— Sono il tuo tesoro, stupida!

E poi ci si bacia e si ride con le lagrime agli occhi…

— Chiudi ora tu gli occhi – mi ordina a sua volta Emilietta, facendosi seria seria come quando griderà a Paolino, il nostro primo figliolo, di non mettersi le dita nel naso come suo padre: – e indovina che cosa ti ho preparato da mangiare.

Io rido dentro di me perchè già le donne non sanno neppure fare uno scherzo. Il profumo della zuppa di cipolle e delle rane fritte l'ho sentito entrando e tutta la casa ne è piena. Dovrebbe chiedermi di chiudere il naso e non gli occhi; ma certe cose alle donne non vengono mai in mente.

— Chiudi gli occhi! – insiste la cara Emilietta. – Indovina che cosa ti ho preparato.

Chiudo gli occhi e corrugo la fronte fingendo di pensare, e poi nomino tutte le cose che non mi piacciono, dalla pastina in brodo alle polpettine di cavolfiore, e lei ride ed alla fine grida trionfante:

— Zuppa di cipolle e rane fritte, tesoro! – e mi getta le braccia al collo e mi bacia.

Qualche volta Emilietta avrebbe anche gridato:

«Spaghetti con le melanzane fritte!» o «Risotto con i fegatini!» o «Baccalà con la polenta!» che sono le pietanze che mi piacciono tanto.

4.

Quando si sogna la felicità ad occhi aperti è come se gli occhi fossero chiusi, perchè non si vede più nulla e si dimentica quello che si sta facendo. Così io, mentre seduto sul paracarro al principio della via sognavo la felicità con Emilia nella casetta bianca dalle imposte verdi e dal glicine fiorito, e mi credevo lontano le mille miglia da quello che sognavo, mi trovai proprio davanti la casetta che avevo visto con Piero appena sceso dal treno. Rimasi talmente stupito che mi sentii soffocare.

— Venite avanti, signorino! Venite avanti!

La vecchia, che dalla soglia m'invitava ad entrare, la conoscevo da un pezzo, ma ero in dubbio in quel momento se si chiamasse Pasqua o Catina. Sapevo pure che ero atteso, ma per la commozione, salendo i tre scalini dell'entrata, mi sentii tremare le gambe e balbettai:

— Non vorrei disturbare!

— Oh, signor Carlo! Voi sapete che siete atteso! E come atteso! La signorina non ha dormito tutta la notte!

Sentii una gioia immensa.

Quanti mesi avevo camminato su e giù davanti a quella casa, guardando le finestre, felice se soltanto potevo intravvedere, dietro i vetri, l'ombra di Margherita! Un giorno Margherita aveva aperta la finestra e mi aveva sorriso. Poi aveva chiuso subito i vetri ed era scomparsa, ma io me n'ero tornato a casa quella sera, passando per i giardini pubblici, a passo di marcia militare, esultante, e avrei gridato a tutti: «Mi ama! Mi ama! Mi ama!» e l'avrei gridato anche a mio padre, ma mio padre, appena mi vide, mi prese a scapaccioni, perchè aveva saputo che non ero stato a scuola.

— A letto senza cena! – gridò mio padre, ed io filai a letto senza cena, arcicontento perchè Margherita aveva aperta la finestra e mi aveva sorriso.

Da quel giorno Margherita era sempre alla finestra quando arrivavo, e un giorno mi gettò un bacio, e un altro giorno una rosa rossa. Allora mi feci coraggio e le scrissi una bella letterina che consegnai alla sua cameriera quando uscì per una commissione. La sua cameriera si chiamava Clorinda e somigliava a una sorella giovane di mia nonna. Margherita rispose alla mia lettera ed io risposi alla sua, ed ella tornò a rispondermi ed io pure e così cominciammo a scriverci lunghe lettere che non finivano più e quell'anno perdetti anche gli esami di ottobre. Durante l'autunno c'incontrammo ai Giardini pubblici, e siccome era la prima volta, per l'emozione nè lei nè io potemmo parlare, e a lei venne subito il singhiozzo e scappò via piena di vergogna; ma io mi sentii esultante e mi buttai in un'aiuola vicina a far le capriole. Una guardia, che si nascondeva dietro un boschetto, saltò fuori, mi afferrò per una gamba in aria, poi per il colletto della giacca e mi portò di peso sul viale.

— Cinque lire di multa, bel signorino!

Non avevo che tre soldi in tasca e la guardia mi accompagnò a casa. Mio padre pagò la multa, mi diede i soliti scapaccioni e mi mandò a letto senza cena, ma io ero felice anche quella volta perchè Margherita aveva avuto il singhiozzo per me.

La domenica dopo l'incontro ai Giardini pubblici ci dovevamo rivedere alla chiesa dei Carmini e poi nel pomeriggio alla musica in piazza, ma il sabato sera ci fu una musica d'altro genere. Passavo sotto le finestre di Margherita gongolante perchè avevo un vestito nuovo, una cravatta nuova regalatami da mio zio Giovanni e una paglietta fiammante compratami da mia madre. Margherita apparve alla finestra col fazzoletto agli occhi e mi fece con la mano lo straordinario segno di darmela a gambe, tanto straordinario, che non compresi subito e il padre di Margherita ebbe il tempo di piombarmi addosso prima che potessi dire neppure: «Ohibò!» e mi sbatacchiò in faccia il pacchetto delle lettere che avevo scritte a Margherita e lettere e paglietta andarono all'aria. Mentre mi chinavo a raccogliere la paglietta nuova, il padre di Margherita mi somministrò un tal calcio nel sedere che caddi bocconi sulla paglietta. Mi rialzai malconcio e, con la paglietta in mano che sembrava il fondo di un cestello di sorbe, rimasi inebetito ad ascoltare il padre di Margherita che gridava:

— T'insegno io a fare lo stupido, pezzo di lazzarone! Ti do io «il cuoricino del mio cuore», gli «occhi di mammola grandi come il cielo» e la «boccuccia di fragola», lazzarone! Via di qui! Se osi ritornare da queste parti, giuro che ti riduco la faccia una focaccia!

Quando vidi che il padre di Margherita alzava la mano e mirava al mio volto, presi una tal corsa che non mi avrebbe tenuto dietro neppure l'acchiappacani in bicicletta.

Il padre di Margherita era capo dei pompieri, un omino tutto nervi, con un ciondolo d'oro al panciotto, due baffi da maresciallo e due manacce da facchino. Tutto avrei perdonato a quell'uomo, perchè era il padre di Margherita: il ciondolo, i baffi, le manacce; ma non gli potevo perdonare la paglietta rovinata. Tutta l'estate dovetti portare quella vecchia che era scolorita dal sole e rosicchiata nell'ala come se l'avessero mangiata i topi.

Ma quando la cameriera disse «Accomodatevi, signorino», aprendo la porta del salone, sentii una grande tenerezza e un gran rispetto anche per il capo dei pompieri, e non mi stupii affatto che ora il padre di Margherita fosse un uomo imponente, con la barba bianca, non avesse il ciondolo d'oro al panciotto e fosse un colonnello di cavalleria a riposo.

5.

— Mio padre! – mi disse Gabriella indicandomi il vecchio. – Questo è Carlo – aggiunse, sorridendo a suo padre.

Mi parve naturale che Gabriella non fosse Margherita e che mi chiamasse Carlo, che è poi il mio primo nome. Sono cose che sapevo, come sapevo che Gabriella era la ragazza che mi sedeva di faccia in treno. Portava la stessa sottanella verde e la stessa blusetta bianca, ma la sottanella scendeva sino a terra e la blusetta era chiusa fin sotto il mento da una fila di bottoncini di madreperla, bottoni falsi, chè sapevo che sotto c'erano i piccoli ganci come li aveva mia sorella Tarquinia nelle sue bluse. Di sotto alla sottanella verde uscivano le punte di due topolini neri e mi venne di pensare che Margherita doveva portare, come mia sorella, le calze lunghe sino sopra il ginocchio e le mutandine bianche con l'elastico e il pizzo a macchina.

Il signor colonnello a riposo m'indicò una sedia, con un gesto brusco, come se sapesse a che cosa pensavo. Mi sedetti, e, cercando di darmi un'aria indifferente, guardai intorno. C'era un pianoforte a coda davanti a una grande finestra spalancata sul giardino. Nel giardino si vedevano soltanto glicini in fiore, mucchi di glicini, festoni di glicini, girandole di glicini. M'investì una zaffata di profumo che non avevo mai sentito, così forte che mi venne un pizzicore nel naso. Sentivo che dovevo dire qualche cosa, ma non trovavo nulla nella testa, che mi girava per quel profumo di cui era piena ora tutta la sala e che mi pizzicava sempre più il naso. Il pizzicore cresceva e Gabriella e suo padre mi guardavano allarmati. Evidentemente temevano di sentirmi starnutire rumorosamente. Desideravo tranquillizzarli, ma in quello scorsi Filomena sulla soglia e anch'essa mi guardava, allarmata. C'era appeso alla parete, tra le due finestre, un gran quadro a olio, e nel quadro era dipinto un signore vestito da generale, con due baffoni e la piuma sul cappello e anche lui mi guardava allarmato, con una faccia minacciosa.

«Non starnuto, signor generale!» avrei voluto dire, ma ne fui impedito da una cosa rossa che spuntò da dietro al pianoforte. «Cosa può essere?» mi chiesi, spaventato che il pizzicore nel naso crescesse sempre più. Di dietro al pianoforte uscì lentamente un alberello rosso, senza foglie, e sull'alberello s'arrampicò, aiutandosi col becco enorme, un pappagallo bianco col ciuffo giallo e azzurro, che sembrava avesse una gran fretta di raggiungere l'ultimo ramo. Il pappagallo s'arrampicava, l'alberello cresceva e il pizzicore nel naso mi saliva verso la punta. Quando il pizzicore mi giunse alla punta, l'alberello cessò di crescere e il pappagallo di arrampicarsi. Sentivo gli occhi di Gabriella, di suo padre, di Filomena, del generale fissi su di me. Aspettavano che starnutissi. Ma io non volevo starnutire. Piuttosto che starnutire in quel momento, sarei morto. Ero certo che sarebbe stata una disgrazia irreparabile.

Il pappagallo, che sino a quel momento mi aveva voltato la schiena, si volse e mi guardò. Aveva gli occhi cattivi del mio amico Piero.

— Car… car… car! – fece il pappagallo ed io sentii che ormai era fatale che starnutissi. Volli dire: «Scusatemi!», ma me ne mancò il tempo.

— Carrrlo! Carrrlo! – strillò il pappagallo disperato, e, patatrac, starnutii. La testa mi scoppiò come una bomba e tutto andò all'aria: Gabriella, il colonnello a riposo, Filomena, il piano a coda, il generale, il pappagallo e l'alberello rosso, e io con loro, una sola ruota, insieme coi glicini e gli alberi e la terra del giardino, tutto all'aria, attraverso il soffitto, su su su in cielo a perdita d'occhio e poi giù, patatrac ancora, sull'altana fiorita.

6.

Tutto era sereno e tranquillo intorno a noi. Ero seduto su una sedia di vimini, su un cuscino di seta dove era ricamato il mio nome, Carlo, ma non osavo guardarmi intorno per la vergogna. Avevo il vago ricordo di qualche cosa che era accaduto per mia colpa e che non avrebbe dovuto accadere.

— Fa sempre così, Chiara: mette troppo zucchero nel caffè – disse Gabriella. – Volete che aggiunga ancora un po' di caffè, Carlo? – mi chiese.

— No, grazie, Gabriella! – risposi confuso.

— Oh, lui! – disse Piero con disprezzo, facendo scricchiolare la sua poltrona di vimini – lui prenderebbe il caffè nella zuccheriera!

Gabriella mi guardò con i suoi occhi grandi, chiari chiari.

— Sapete, – disse Gabriella, – piace tanto anche a me lo zucchero!

Mi sorrise. M'accorsi che le sue labbra tremavano e che aveva la sottanella verde che non le arrivava alle ginocchia e la blusetta sbottonata che lasciava vedere il suo piccolo seno color latte, tondo e sodo.

— Sono contento che vi piaccia lo zucchero, Gabriella, – diss'io.

— Ma perchè non vi date del tu ora, che siete fidanzati? – chiese Piero stizzito. – Tu fai sempre lo sciocco!

Balzò in piedi, chiuse i pugni, rosso in volto, furioso. Aprì la bocca per ingiuriarmi, ma non disse nulla. Ci volse le spalle di scatto, raggiunse la ringhiera di glicine, e scomparve.

Gabriella pose le sue piccole mani sulle mie e mi guardò con i grandi occhi pieni di amore.

— Non gli badare! – mormorò. – Siamo finalmente soli!

Allora me la presi sulle ginocchia e cominciai a baciarla sugli occhi, sulle orecchie che erano piccole e trasparenti, sul collo bianco e delicato, e mentre la baciavo, vedevo Piero lontano lontano sulla strada, sempre più piccolo, sulla strada fiancheggiata di gelsi, pieni di foglie per i bachi da seta di mio zio Arcibaldo. Piero scomparve dietro la stalla di mio zio e allora perdetti la testa. Gabriella aveva chiuso gli occhi e le tremavano le labbra. Infilai la mano nella sua blusetta aperta e la baciai sulla bocca.

7.

— Sveglia! Sveglia! Su, Filippo, svegliati! Sono già le otto e mezza! Arriverai tardi all'ufficio anche oggi e ti toccherà correre!

— Come? Che? Cosa?

— Le ot-to e mez-za so-na-te

— Ah! Stavo sognando, Clementina…

— Un terno al lotto?!

Non risposi. I miei pantaloni sulla sedia, con le mutande dentro, vuoti, flosci, mi diedero uno strano senso di pena e di disgusto.

Zufolai un'arietta dell'Aida per non pensarci.

II. Come fu

1.

Quasi ogni domenica, nel pomeriggio, la signora Piacentini con le sue bambine veniva a prendere Clementina per fare una passeggiata. Andavano ai giardini pubblici o sino al Parco, o in galleria, a sedersi al caffè.

— Divertitevi – dicevo loro sulle scale.

— Speriamo che il mal di capo vi passi, signor Filippo – mi diceva la signora.

— Grazie, signora Anna – rispondevo – Passerà! – E mi appoggiavo alla ringhiera a guardarle scendere. Come forme, la signora Anna non era brutta affatto. Anzi, scendendo le scale, moveva le anche in una maniera che mi piaceva.

Giunte in fondo alla scala, si sporgevano, l'una dopo l'altra, a guardar su. Prima mia moglie, poi la signora Anna e in fine le due bambine insieme.

— Ciao! – gridava mia moglie.

— Arrivederci! – gridava la signora Anna.

Le bambine guardavano su con la bocca spalancata, ma non dicevano nulla.

— Buon divertimento! Arrivederci! – gridavo giù.

— Ciao! – ripeteva mia moglie e scomparivano.

Rientravo in casa e chiudevo l'uscio con un sospiro di sollievo. Quella domenica diedi anche il catenaccio alla porta con soddisfazione. Per non andare con loro, avevo detto che mi sentivo stanco e che avevo il mal di capo, mentre stavo benissimo. Era per me una gran gioia trovarmi solo in casa, poter fare tutti i miei comodi e dormire sulla poltrona.

Mio cognato Silvio, il più giovane dei fratelli di mia moglie, era partito la sera prima per Firenze ad acquistare quadri. Dio volesse che vi restasse un bel pezzo! O facesse addirittura il miracolo di non tornare più! Da un anno viveva con noi. La sua presenza era per me un tormento, mi paralizzava. Silvio era stato prima al Marocco e poi in Inghilterra. Si piccava di far l'inglese. Neanche con mia moglie potevo fare tutto quello che volevo. Aveva il suo decoro, mia moglie! Diceva: «Non dimenticare che sono una Colombo!» come se avesse detto: «Sono una Savoia!». Avevo, per certe cose, più soggezione di mia moglie che della donna di servizio. Clelia era una ragazza di campagna e in campagna, se scappa di fare qualche cosa che non si deve fare, non ci si bada: anzi ci si ride sopra.

Ero solo in casa e avevo davanti a me due o tre ore per fare i miei porci comodi. Mi misi a girare per le stanze per digerire: la domenica, si sa, si mangia sempre un po' più del solito. Andai in cucina a bere un bel bicchiere d'acqua fresca. L'acqua mi parve calda. Lasciai scorrere il rubinetto e intanto andai in camera da letto per guardarmi nello specchio. Avevo il volto acceso, e il volto acceso non mi stava bene coi capelli castano scuri e i baffetti tagliati all'americana. Io sono nato per essere pallido. Col volto pallido ho l'aria distinta e romantica. Mi rassettai i capelli col pettine di Clementina; mi spruzzai la testa con l'acqua di Colonia di Clementina.

— Non toccare! – mi gridava sempre Clementina, ancora prima che mi movessi. – Bada che quello è il mio pettine! Bada che quella è la mia acqua di Colonia!

Tornai in cucina. Bevvi con delizia, succhiando lentamente, l'acqua fresca nel cavo delle mani, poi passai un momento in gabinetto. Di faccia al gabinetto, c'era uno stanzino, una specie di ripostiglio dove, su una branda, tra cassoni e roba vecchia, dormiva Clelia.

— Non devi mai lasciare la porta della tua camera da letto aperta – gridava sempre Clementina. Invece, la porta era socchiusa. Dacchè Clelia era con noi, non avevo messo più piede nel ripostiglio; e se la porta non fosse stata socchiusa, non avrei neppure allora pensato di entrarci. Entrai. C'era là dentro un tanfo acre di sudore di donna e di biancheria poco pulita, un odore speciale che mi fece venire in mente la campagna di mio zio Arcibaldo quand'ero ragazzo: la stalla, le mucche, l'odore di animali, di paglia, di letame; il ronzare noioso dei mosconi; le mosche, le vespe nella gran caldura; le contadine a piedi nudi che andavano dietro ai pagliai, ed io che le spiavo dietro la siepe dell'orto.

— Bah! che odore!

Uscii dal ripostiglio sbattendo la porta.

Non era ragionevole lasciar andare ogni domenica, per tutto il pomeriggio, sola per Milano una ragazza come Clelia, una ragazza di campagna di vent'anni, belloccia e soprattutto formosa, una stupida che si confondeva e diventava rossa per un nonnulla. Il primo mascalzone che incontrava poteva metterle le mani addosso, rovinarla prima che lei dicesse: «Oh!»

Me ne andai in tinello disgustato.

Tirai la poltrona vicino alla finestra per sentire un po' di fresco. Le gelosie erano chiuse e i vetri aperti. Mi sdraiai a mio agio. Allungai i piedi sulla sedia e chiusi gli occhi.

Cosa me ne importava, in fondo, di quello che poteva accadere a Clelia? Ciascuno ha il suo destino. Se il destino di Clelia era d'incontrare un mascalzone che le mettesse le mani addosso, nessuno poteva farci nulla. Il destino è il destino. Il mio destino era stato di incontrare Clementina, d'inverno, dai Gnesini, dove si andava a giocare a tombola. Avrei potuto invece incontrare Emilia, la moglie del mio amico Piero. Emilia, da ragazza, stava di casa poco lontano dai miei, ed io la conoscevo di vista, ma allora non vi avevo badato. Avrei potuto sposare Margherita alla quale avevo fatto la corte per lunghi mesi e per amor della quale avevo anche preso le botte dal padre suo: ceffoni sul muso e un calcio nel sedere che mi aveva fatto rovinare la paglietta nuova! Mi piaceva Margherita più di Emilia, come volto; ma Emilia era più sottile, più delicata di Margherita. A me le donne grasse non sono mai piaciute! Un conto è togliersi un capriccio con una ragazza grassa, fresca come Clelia, per esempio, e un conto è sposarla. Quando avevo sposato Clementina non pesava neppure cinquanta chili: l'avrei quasi potuta sollevare con una mano. Ed ora ne pesava settantatrè e cresceva sempre, per quanto facesse e si tormentasse per dimagrire. Clementina sarebbe stata la moglie ideale per il mio amico Piero, per un uomo come lui di più di cento chili. Il mondo li fa e li accompagna! Quanto sono stupidi i proverbi… Pan e nose, magnar de spose! Nose e pan, magnar da can!

Una! Due! Tre! Le tre!

Clelia sarà sui Bastioni con qualche sua amica, cameriera come lei. È divertente andare a vedere le cameriere sui Bastioni! Le vanno a vedere i soldati… Le stupidaggini che si dicono… Ridono e ridono, con le mani tra le gambe… Clelia avrà trovato un soldato del suo paese e camminerà col fazzoletto in mano, ridendo come una stupida, tutta rossa in faccia…

2.

Immaginavo che, appena in istrada, Clementina avrebbe chiesto alla signora Piacentini:

— Dove vogliamo andare, Anna?

— Già che non c'è tuo marito, che tuo marito non ha voluto accompagnarci, possiamo andare al caffè in Galleria!

— Oh, andiamo in Galleria, mamma! – si mettevano a gridare le bambine. – Al Grande Italia c'è l'orchestra ungherese… i suonatori sono vestiti in costume ed hanno i baffi…

— Vi offrirò i gelati, figliole! – diceva mia moglie. Il gelato piace a Clementina più che alle bambine; ma quando andavamo al caffè insieme, per farmi dispetto, ordinava sempre l'aranciata di San Pellegrino che detestavo… Ma bevesse quel che voleva! Cosa me ne importava? E cosa m'importava se alla Clelia un mascalzone metteva le mani addosso?

3.

Io ero solo in casa, dormivo nella poltrona ed ero contento. Ma quella volta sentii girare la chiave nella toppa. Qualcuno apriva pian piano la porta. Chi poteva essere? Forse Clementina che aveva dimenticato a casa il portamonete o non aveva preso il fazzoletto. Finsi di dormire. Mi misi a russare. Clementina, sentendo che russavo, se ne sarebbe andata in punta di piedi. Aspettavo che chiedesse:

— Sei lì, Filippo?

Non era Clementina. Parlottavano nel corridoio. Ladri? «Ah, perdio – pensai, – questa deve essere Clelia che si porta in casa il moroso credendo che siamo tutti usciti. Ora ti accomodo io!». Volli alzarmi per origliare alla porta del tinello e aspettare il momento più propizio per balzar fuori e sorprenderli. Mi spaventai. Mi sentii le gambe molli, le mani che non facevano presa e ricordai che ero stato colpito da paralisi come mio nonno. Sudai freddo. Clelia e il suo moroso ridevano nel corridoio rumorosamente. Se ne infischiavano di me. Sapevano che avevo la paralisi. Clementina non avrebbe dovuto abbandonarmi solo in casa con la paralisi. Un pover'uomo con la paralisi è come un cadavere vivente. Volli almeno gridare: «Mascalzoni! Vigliacchi!», ma avevo la lingua gonfia e non potevo. Se non volevo morire soffocato, dovevo sputare fuori la lingua o ingoiarla. Mi ci provai. Non potevo nè sputarla, nè ingoiarla. Con gran fatica riuscii a masticarla. Aveva il sapore dell'uva americana quando rigurgita dallo stomaco. Non me ne stupii. Avevo mangiata tanta uva nella vigna dello zio Arcibaldo e lui se ne era accorto.

— Creperai! – mi aveva gridato, e perchè non vedesse che vomitavo, corsi dietro al pagliaio con la bocca piena.

Dietro al pagliaio c'era mio cognato Silvio che abbracciava Clelia. Oh, lui, con le sue arie d'inglese! Col suo selfcontrol!

Clelia mi vide per prima e si mise a gridare:

— Giù le mani! Con chi credete di aver a che fare, muso di scimmia?!

Mio cognato si volse e mi guardò cattivo. S'accomodò la gardenia all'occhiello, si raddrizzò il cilindro grigio con un colpettino a destra, infilò i guanti color canarino e se ne andò facendo il molinello con la canna di malacca, cantando a mezza voce Tipperary.

4.

Quando fummo soli Clelia ruppe in una gran risata.

— Andiamo – disse. Mi guardò con occhi languidi, leccandosi le labbra rosse e mi tirò per un braccio verso il fienile.

Salì per prima sulla scala a piuoli, ed io le tenni dietro col cuore in gola.

Clelia aveva i piedi nudi e non aveva addosso che la camicia con la sottana sopra.

La scala non finiva più. Mi veniva meno il respiro e sentivo che anche Clelia sbuffava. Improvvisamente Clelia si sedette sulla mia testa. Guardai su, e quello che vidi mi fece ridere. Guardai giù, e quello che vidi mi avrebbe fatto rizzare i capelli se Clelia non fosse stata placidamente seduta sulla mia testa. Mi afferrai disperatamente alle gambe di Clelia. La camicia e la sottana si gonfiarono come un paracadute e si cominciò a scendere dolcemente per l'aria. Ripresi a respirare. Si andava di qua e di là portati da un venticello leggero e Clelia si mise a battere le mani. Sedeva sulla mia testa ed era nuda sino alla cintola. Con orgasmo vidi spuntare sotto di noi la guglia di un campanile, cime di alberi e tetti rossi di case. Se qualcuno avesse visto Clelia seduta sulla mia testa, nuda sino alla cintola! Potessimo scendere, pensavo, su una collinetta solitaria o su un prato in piena campagna! Ma che! Scendevamo diritti, diritti, su Comafallo, il paese di mio zio Arcibaldo. Mi augurai che andassimo a cadere sui tetti, e per un momento mi parve che si cadesse proprio sui tetti. Ma i tetti si scostarono e apparve la piazza del paese, piena di gente, bandiere alle finestre, palloncini colorati dappertutto, come per la festa di San Luca, protettore di Comafallo. Nel mezzo della piazza avevano steso un telone da circo equestre e lo tenevano gli uomini della confraternita, con cappa rossa e sottana bianca e le facce congestionate.

Riconobbi con terrore tra la folla tutta la mia famiglia: mio padre, mia madre, i fratelli, le sorelle, gli zii, le zie, i cugini, le cugine. C'erano persino i miei nonni, che avevo visto soltanto in fotografia. C'era Clementina a braccetto della sua amica Anna, con le due bambine a bocca aperta; il mio amico Piero con sua moglie; mio cognato Silvio che guardava col canocchiale; lo zio Arcibaldo con la fascia di sindaco e l'intera consulta comunale col cappello in mano; don Gerolamo, il parroco di Comafallo e il maresciallo dei carabinieri.

E tutti guardavano in su.

— Tira giù le gonne! – gridai a Clelia, ma essa non mi udì. Cantava a squarciagola: «Si scopron le tombe… .». Allungai una mano per tirar giù camicia e gonna, ma erano gonfie più che mai, in alto sulla mia testa. Allora chiusi gli occhi per la vergogna.

Pim, Pum! Pim, Pum! Pim, Pum!

Avevo toccato col sedere il telone del circo equestre e rimbalzavo in aria come una palla di gomma.

Scrosciarono applausi ed evviva che non finivano più.

Pin! Pin! Pin! Pipinpin!… La palla si fermò, ma io continuavo a tenere gli occhi chiusi. Avrei voluto sprofondare sotto terra per sempre. Seguì un silenzio. Nel silenzio udii mio zio Arcibaldo esclamare solenne:

— Cittadini di Comafallo! Il ricordo di questo avvenimento glorioso rimarrà scritto a lettere d'oro negli annali della storia del nostro paese e del mondo.

Mi sentii pungere il sedere dalla punta del bastone di mio zio, che disse a bassa voce:

— Ah! Ah! Filippino di mammà!

Me lo diceva sempre da ragazzo, quando ne facevo una delle mie.

5.

Aprii gli occhi e mandai un gran respiro come si fa quando ci si sveglia dopo un brutto sogno. Mi misi a ridere. Ero sulla branda di Clelia mezzo nudo e sudato. Come avevo potuto andare a dormire sulla branda di Clelia? Mi avesse scoperto Clementina sulla branda di Clelia! Sarebbe stato il finimondo!

M'ero levato le scarpe. Le cercai invano sotto la branda, tra i bauli e le casse. Suonò il campanello alla porta. Maledette scarpe, dove le avevo ficcate? Scoperchiai, in orgasmo, le casse, ferendomi e insanguinandomi le mani; aprii i bauli, gettando all'aria tutta la roba che c'era dentro. Trillò il campanello accanto al mio letto matrimoniale. Mi avevano data, la sera, una camera con due letti perchè non c'era più libera una camera ad un letto. Mi ricordai che le scarpe che cercavo le avevo messe fuori dall'uscio. Si mettono sempre le scarpe fuori dall'uscio all'albergo, anche se qualche volta le portano via.

Era il portiere dell'albergo che mi chiamava.

— Pronto!

— Signore! C'è una signorina che vi attende in salone.

— Ah! – feci. M'ero scordato l'appuntamento con Gabriella. – Scendo subito.

Mi vestii in fretta. Misi la camicia di seta bianca che mi sta tanto bene, il vestito di flanella chiaro. Possedevo un centinaio di cravatte: ne scelsi una a nodo, di colore amaranto cupo. Mi pettinai con la riga da un lato; mi profumai e mi guardai nello specchio soddisfatto. Ero un po' più pallido del solito, ma il pallore dona al mio volto. Avevo l'aria distinta, romantica. Era naturale che Gabriella fosse innamorata di me.

Scendendo lo scalone, sul soffice tappeto rosso, mi sentii leggero, come se avessi avuto le ali. Ero felice.

Agli ultimi scalini mi fermai. Mi chiesi turbato: «Gabriella avrà la sua solita gonnella verde troppo corta e la blusetta bianca sbottonata sul petto?». Anche le donne più perfette hanno sempre le loro manchevolezze. Gabriella, in casa, portava la gonnella lunga e la blusa chiusa sotto il mento, e fuori usciva come se fosse stata una ragazza leggera, senza testa.

Due signori, che salivano le scale, mi guardarono curiosi. Il più grasso dei due, con l'abito a coda di rondine, il panciotto bianco e il cappello duro, allungò il collo per parlare all'orecchio del compagno, uno spilungone vestito a scacchetti bianchi e neri e la paglietta tonda, e sentii pronunciare il mio nome, Carlo, e qualche altra parola che non afferrai. Lo spilungone si mise a ridere rumorosamente e gli caddero gli occhiali dal naso.

«Villani!» pensai e scesi gli ultimi scalini in fretta. Il ragazzo dell'ascensore, in divisa rossa, coi bottoni d'oro che gli correvano per la persona, mi si parò davanti facendo inchini.

— Basta! – gli dissi. – Che vuoi?

— Un telegramma per voi, signor Carlino.

— Per me? Grazie! – Presi il telegramma, ma subito rimasi a mani vuote e mi accorsi che avevo perduto anche i guanti nuovi. Mi avviai indispettito verso il salone. C'era gran confusione di gente che andava e veniva. Vidi Gabriella nel mezzo del salone, accoccolata per terra su un cuscino rotondo giallo oro, con le gambe nude incrociate. Teneva le mani sulle ginocchia, che la gonnella troppo corta non poteva coprire, ed aveva la blusetta bianca sbottonata sul petto. I giovanotti, che le passavano davanti, si chinavano a guardarla ed io da lontano sapevo che Gabriella mostrava il piccolo seno color latte, tondo e sodo. Soffrivo nel vedere che i giovanotti sorridevano ed ammiccavano tra loro. Ce n'era poi uno col monocolo che continuava a girare intorno a Gabriella, saltellando. L'avrei preso a schiaffi se avessi potuto; ma, entrato da una porta, Gabriella mi appariva da un altro lato del salone; giravo dall'altro lato, per raggiungerla, e Gabriella aveva ancora mutato di posto. Questo gioco durò un bel pezzo. Poi Gabriella andò ad attendermi in un salottino appartato, dove la trovai sola. Sedeva su un divano della stessa stoffa e dello stesso colore amaranto della mia cravatta. Pareva proprio che avessi tagliato un pezzo della stoffa del divano per farmi la cravatta. Gabriella teneva la testa china e aveva l'aria triste. Quando alzò la testa e mi vide, ruppe in pianto.

— Perchè – mi disse, – hai detto, al signor Trotta che ti avevo dato appuntamento qui?

— Io?

— È andato a provvedersi di toscani. Torna subito.

Ero desolato e furioso. Come aveva potuto Piero sapere di quell'appuntamento?

— Non piangere, Gabriella! dissi. – Ti giuro che lo mando via subito, in malo modo. Io lo odio! Mi è sempre tra i piedi! Mi guasta la vita!

— Ma il signor Trotta è il tuo più vecchio amico! È stato a scuola con te! – protestò Gabriella, asciugandosi gli occhi.

— Sono sempre i più vecchi amici che finiscono per guastarci la vita – diss'io. – Credono di conoscerci più che non ci conosciamo noi stessi, continuano a darci consigli per il nostro bene, per il nostro interesse, e invece pensano soltanto a se stessi e ci sfruttano in tutte le maniere. Ci chiedono oggi un favore e domani un altro, e alla fine ci portano via la moglie o l'impiego, e magari tutt'e due. Peggio dei genitori e dei parenti sono; chè i genitori ed i parenti ce li regala il buon Dio e ce li dobbiamo tenere comunque siano, e anche ringraziare il buon Dio, per giunta. Ma gli amici ce li scegliamo noi e per questo possiamo gettarli alla porta quando vogliamo. Non c'è poi il proverbio che dice «Dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io»? I proverbi sono la sapienza del mondo.

Ero furioso! Piero mi guastava l'incanto di quell'incontro con Gabriella, che avevo tanto sospirato. Ma ora glielo avrei detto e lo avrei fatto filare via, con le buone o con le cattive.

Gabriella mi sorrise, mi spianò la fronte corrugata con una delle sue manine e con l'altra mi attirò sul divano accanto a sè.

— Carlo! Amor mio! – mormorò con un filo di voce.

Piero entrò trionfante.

— Ah, tu qui? – diss'io, come fossi stato arcicontento di vederlo. Mi scostai da Gabriella per fargli posto sul divano.

Piero si sedette fra noi due.

— Chi non fuma toscani non sa cosa sia la gioia di vivere – esclamò, e buttò all'aria una boccata di fumo. – Tu non hai mai conosciuto la gioia, di vivere, Carlo! E non la conoscerai mai.

Fece la faccia scura e mi lanciò uno sguardo di profondo disprezzo.

— Sei un pover'uomo – aggiunse, convinto. – Con te Gabriella sarà la più infelice donna di questo mondo.

Volevo replicare, dirgli almeno che s'ingannava nei riguardi di Gabriella e invece dissi:

— Hai ragione, Piero!

Temevo che andasse in collera. Bastava una parola perchè il sangue gli salisse alla testa. Si sarebbe alzato in piedi, stringendo i pugni e mi avrebbe ingiuriato.

— Che toscano! Che toscano! – ripeteva Piero, lanciando nuove boccate di fumo verso il soffitto.

Gabriella ed io stavamo a guardarlo fumare trasognati.

Ad ogni buffata Piero si gonfiava. Dovemmo scostarci per lasciargli posto sul divano.

Ad un tratto il toscano parve spegnersi. Piero guardava le ginocchia nude di Gabriella con occhi che non promettevano nulla di buono. Gabriella tirò disperatamente la sua gonnella verde sulle gambe. Il toscano ricominciò a tirare. Ad ogni buffata Piero continuava a crescere e noi si tornava a fargli posto sul divano.

Il salottino si riempì di un fumo pesante ed acre che prendeva alla gola. Gabriella si piegò in due a tossire. Quella tosse di Gabriella, che non cessava più, mi lacerava il cuore. Piero invece guardava Gabriella tossire e rideva. Gli avrei spaccata la testa, se avessi potuto. Alla fine Gabriella non ne potè più e scappò via. Io le corsi dietro. Piero balzò in piedi stringendo i pugni e picchiò la testa al soffitto. Tutto l'albergo tremò come se ci fosse stato il terremoto. Quando fui fuori dall'albergo, mi voltai a guardare se Piero c'inseguiva. La pancia di Piero ostruiva la porta dell'albergo. Dal panciotto pendeva il ciondolo d'oro del padre di Margherita ed era grosso come il pestello del mortaio di Clementina. Mi venne la tentazione di tornare indietro per dare un calcio in piena pancia a Piero, ma Gabriella mi tirò per una mano.

— Non badarci! – mi mormorò. – Vieni, amor mio

6.

Corremmo, tenendoci per mano, per un viale di azalee fiorite. Quando non ne potemmo più dal correre, ci fermammo davanti a un boschetto di sempreverdi.

— Nascondiamoci qui sotto – propose Gabriella. – Qui, neppure il tuo amico ci potrà scovare.

Dovemmo metterci carponi per entrare sotto il verde.

Là sotto era la solitudine, la pace. Filtrava una luce d'acquario. Vi era un tappeto fresco di ciclamini profumati, e, tutt'intorno, mughetti, violette e non-ti-scordar-di-me. Mi sedetti sul ciclamini, presi Gabriella sulle ginocchia e cominciai a baciarla sugli occhi, sulle piccole orecchie, sul collo delicato e caldo. Il profumo dei fiori ci inebbriava. Gabriella aspirava l'aria con gli occhi chiusi. Le tremavano le labbra. Infilai la mano nella sua blusetta e la baciai sulla bocca.

Le labbra di Gabriella erano più dolci del miele. Il suo piccolo seno, tondo e sodo, palpitava nella mia mano. Sentii il suo cuore battere contro il mio cuore. Conobbi allora, per la prima volta, quanto possa essere misteriosa, delicata e calda la carne di una vergine.

Gabriella tremava tutta. Anch'io tremavo. Provavo un senso di paura. Sentivo che il destino, l'irreparabile, stava per compiersi. Staccai la bocca dalla sua per riprender fiato e lei mi ricercò la bocca, come se senza le mie labbra sulle sue le mancasse la vita. Mi afferrò per i capelli, mi morse le labbra, mi strinse a sè disperata.

Mandò un grido.

Rimanemmo come morti.

Quando riaprimmo gli occhi, il verde s'era aperto sulle nostre teste. Nel cielo brillavano le prime stelle.

Gabriella mi aiutò ad alzarmi. Uscimmo dal boschetto senza guardarci, senza parlare.

— Ora nessuno potrà dividerci – disse per prima Gabriella.

Aveva mutato voce. Mi cercò le mani. Mi baciò le palme delle mani l'una dopo l'altra, a lungo.

— Ora tu sei il mio signore sulla terra – disse.

In un impeto di passione l'afferrai, me la strinsi al petto, la baciai sui capelli, gridando:

— Mia, mia per sempre!

Gabriella mi pose una mano lieve sulla bocca.

— Guarda il cielo quanto è grande! – disse. – Guarda la notte come scende solenne e silenziosa sulla terra. Domani il sole non sarà quello che era ieri, e neppure noi domani saremo quello che eravamo ieri.

Seguì un lungo silenzio. Nel boschetto dei sempreverdi cantò un usignuolo. I prati intorno erano di velluto viola. Sulla nostra destra brillava, tra gli alberi, un piccolo lago di smeraldo. Il cielo s'era riempito di stelle. Una stella parve staccarsi dalle altre e scendere rapidamente verso di noi. Quando fu vicina vedemmo che era un aeroplano che sembrava d'argento.

— Ho paura – mormorò Gabriella. – Sono stata troppo felice!

— Ma chi può essere? – chiesi con subita angoscia.

Gli occhi di Gabriella diventarono immensi.

L'aeroplano si fermò sul prato. Vi era un bel giovane nell'aeroplano, dal profilo di guerriero greco.

— È mio cugino Ferdinando! – balbettò Gabriella. – Addio, Carlo!

Non feci in tempo a trattenerla. Pareva avesse le ali ai piedi tanto scivolò leggera sull'erba. La vidi saltare nelle braccia del cugino Ferdinando e l'aeroplano si levò in volo e scomparve dietro gli alberi del piccolo lago.

7.

Gli alberi, il lago, le stelle erano scomparsi. Era sceso un velo nero sulla terra. Mi sentivo la morte nel cuore. Stavo per piangere; ma Piero mi prese bruscamente sotto braccio.

— Vieni! – disse. – Dobbiamo correre se non vogliamo perdere l'ultimo treno. Quel fanaletto rosso, laggiù in fondo, sotto quel pennacchio di fumo nero, è la stazione.

Piero si mise a correre. Correva, come faceva da ragazzo, nelle gare ai Giardini pubblici, coi gomiti stretti ai fianchi, i pugni chiusi in avanti, la persona inclinata indietro e alzava le ginocchia come un cavallo. Era proprio ridicolo.

Si arrivò in stazione appena in tempo per prendere l'ultimo treno.

— Ah, hai visto?! – disse Piero. – Quasi perdevamo il treno.